01 aprile 2009

Chissà chissà

Sono agitata.
Sfreccio in autostrada. Il cielo di un grigio pesante. Il mio piede sull'acceleratore pure.
Cerco la colonna sonora giusta per darmi il coraggio che mi serve ma non farmi arrivare a destinazione troppo esaltata, quieta piuttosto. E' una serata importante questa. Teardrop del Massive Attack concilia l'intensità dello stato d'animo che mi porto in giro negli ultimi giorni. Poi scelgo la radio, che mi ripaga con Given to fly dei PJ. E correggo il tiro con una punta di cielo sereno, di quello non sfrontato.
E' davvero una serata dal finale aperto.

Allievo ha indugiato sul da farsi. Mi ha chiesto "cena fuori o a casa?". Io ho la mia preferenza, ma ho lasciato decidere a lui. Quando scendo dalla macchina non trovo subito il sorriso aperto che conosco. Le labbra sorridono, ma c'è come un'ombra, una tensione nello sguardo.
Niente, non ce la fa a decidere dove andare. Non vuole prendersi da solo la responsabilità di quello che sta meditando da tempo. Allora gli propongo il posto dove porto tutti i miei uomini, avendo la delicatezza di usare altre parole, altre virtù per presentarglielo: è un posto carino, intimo, senza pretese sul cibo ma con un ripasso di Valpolicella che mi piace un sacco. Nonostante i miei sforzi, prima di varcare la soglia ride e si ferma a cercare le crocette delle prede che sono passate di là. Lui scherza, io invece sorrido, di quel sorriso che vuol dire Mannaggia, c'hai preso. E tra me e me scoppio di felicità per quest'uomo che mi sgama sempre, senza saperlo, spontaneamente. Se un giorno se ne rendesse conto... Se un giorno.

La cena è rilassata, distesa. La voglia di raccontarsi è tanta. E' quella voglia che apri mille parentesi ogni volta che attacchi con un discorso. Quella voglia per cui ridi sempre e nel frattempo ti avvicini. E tutto il corpo -il busto leggermente girato di fianco, la testa inclinata, la mano spostata più in là...- tutto il corpo vorrebbe gettarsi sull'altro, lasciarsi assorbire, e lì scomparire.

Un solo bacio prima di alzarci per andare via.
Andiamo a casa. Lui lo sapeva già. A questo era dovuta l'ombra scura su quel sorriso.

Casa sua mozza il fiato. E' un appartamento su due piani, in un palazzo storico che ne ha 4 in tutto. Al terzo piano l'ingresso che dà su una scaletta stretta e ripida. I gradini si avvolgono l'uno sull'altro prima di aprirsi in un corridoietto. 2 stanze, quella dei bambini e quella col lettone matrimoniale. Un bagno con la doccia e una piccola sauna. Altre scale che tolgono il fiato per quello che ti si apre davanti. Sono sul tetto. Una sala con 3 pareti a vetri tra cui lo sguardo non sa scegliere. Il campanile della chiesa di Santa Anastasia, la punta mozza e candida del Duomo, la Torre dei Lamberti... Io non vorrei staccarmi da quelle vetrate. Io che quando entro in un posto nuovo corro subito alle finestre. Io che su quei tetti vorrei lasciar rimbalzare un piccolo sole di felicità. Un mio piccolo sole.

Lui dov'è? Lui è agitato. Continua a scendere e salire. Porta cose, prende cose, sposta cose. Mi dice di scegliere la musica. Quando infilo il cd di Anita Baker nel lettore la luce è spenta. Sui davanzali candele rosse, di quelle basse e tozze. Accese.
Il divano sarà il nostro posto. Il divano rosso è il posto dove ha deciso, immaginato, sperato di riuscire a rompere il suo incantesimo. Ha sperato anche di stare bene, dopo. Non ha immaginato con chi. Anche se ha deciso con me.

Io faccio quello che devo fare. Mi avvicino, lo assecondo, lo interrompo, gli ricordo che nulla è scontato, mi ferma. Mi chiede a parole di non parlare, con lo sguardo di lasciarlo continuare.
Ok. Lo so di cosa ha bisogno. Ha bisogno che io lo assecondi, che non gli faccia domande, che non gli permetta di pensare. Ha bisogno di chiudere gli occhi, trattenere il fiato, nascondere il viso nel cuscino. Ha bisogno di non capire troppo quello che sta succedendo per riuscire a rompere l'incantesimo. La formula magica dice E' un anno che non sto con una donna...

E io, di cosa ho bisogno io? Io ho bisogno di sentire che sei lì con me. Ma non ti trovo. E non ti cerco, quando vedo che ti stai già rivestendo. Non serve insistere per scoprire che non ti troverei.

Scendo da quel piccolo paradiso triste da sola, al buio, le scarpe in mano. Parole di convenienza mi accompagnano per le scale. Questa sembra più una ritirata che il congedo tra due amanti, ma mi sforzo di non pensarci. Mi sforzo di non pensare proprio a niente. Fuori piove.

Infilo le scarpe. Mi schiaccio bene il cappello sugli occhi. Chiudo il cappotto. E mi accendo una sigaretta.
I tacchi delle scarpe risuonano lungo la via deserta. Saldi. Regolari. La pioggia spessa spalma la mia sagoma sul pavé lucido. Vorrei che anche alla mia testa fosse riservato lo stesso dolce trattamento. Invece quella continua a pensare. La parcheggio per un attimo sul punto più alto di Ponte Garibaldi.

Non dipende più da me. Ora dipende solo da lui, che sarà in preda ai più profondi sensi di colpa verso l'ex moglie, i figli, la sua vita di prima, l'idea dell'amore, i sogni per il futuro, quella casa a cui non sente di appartenere. Persino il divano rosso, la copertina blu, le candele sui davanzali.
E io... Io sono rimasta agganciata a tutto questo.

Bene. Meglio scendere dal ponte adesso. Che nulla succede per caso.
Simone mi aspetta a cena con un tizio per lavoro. Mi ha chiesto se stasera lo ospito. Gli racconto. Rido. E lascio che mi abbracci tutta la notte.

Stavolta sono io che ho bisogno che qualcuno faccia qualcosa per me.

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